E quello di Chewbecca?

Salta fuori questi giorni, dopo più di 30 anni, il provino di Kurt Russel per il primo episodio di una trilogia di film fantascientifici che si dice non essere affatto male e che dovrebbe chiamarsi Star Wars.


Pare che la parte sia poi andata a tale Harrison Ford, divenuto poi famoso nel sottobosco del cinema indipendente per aver interpretato un archeologo che salva il mondo combattendo prima con i nazisti e poi, per par condicio, contro i comunisti.



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Il Mostro di Firenze

Da Brescia Oggi

Quasi tutti, fin da piccoli, hanno avuto paura dei mostri. Mostri cinematografici, mostri letterari, mostri immaginari. Ciò che li ha sempre accomunati è il loro carattere extra-umano. Creature fantastiche, così distanti, fisicamente e moralmente, da noi comuni mortali.
Ma purtroppo, sempre fin da piccoli, siamo stati costretti a maturare una certezza: i mostri possono anche essere umani, terribilmente umani. Ce l’ha insegnato la cronaca nera e con lei i protagonisti, carnefici e vittime, che ne hanno drammaticamente animato i racconti.
All’interno dell’affollato insieme dei “mostri” italiani, uno più degli altri ha saputo identificarsi con quella natura disumana e malvagia con cui si è soliti connotare il termine.
Un mostro senza nome (oppure, secondo molti, con più di un nome), che per ventisette anni, tra il 1968 ed il 1985, ha seminato il terrore attorno a Firenze con l’efferatezza degli otto duplici omicidi che gli sono stati attribuiti.
Stiamo parlando del “Mostro di Firenze”, il protagonista di una delle pagine più nere della storia della nostra nazione, da sempre oggetto del più ossessivo degli interessi da parte dei media. Infatti, dopo aver riempito migliaia di pagine di giornali, essere stato oggetto di interesse di numerose opere letterarie e protagonista di un film a lui dedicato nel 1986, il “Mostro di Firenze” si appresta a sbarcare sul piccolo schermo con la miniserie in sei episodi intitolata “Il Mostro di Firenze”, diretta da Antonello Grimaldi ed in onda su Fox Crime dal 12 novembre.
La storia del “Mostro” inizia il 21 agosto 1968, quando a Signa, una cittadina a pochi chilometri da Firenze, vengono ritrovati i corpi di Antonio Lo Bianco e Barbara Locci, una coppia di amanti assassinata a colpi di pistola mentre si trovava appartata all’interno di una Alfa Romeo Giulietta. Il delitto diviene fin da subito oggetto di una intricata indagine giudiziaria che vedrà il marito di Barbara Locci, Stefano Mele, finire in carcere per l’omicidio della moglie e dell’amante. Nonostante la condanna di Mele qualcosa sembra non tornare. L’arma del delitto non viene ritrovata e le varie confessioni di Mele appaiono spesso discordanti e non particolarmente credibili.
Passano sei anni ed un nuovo omicidio sconvolge la tranquillità della provincia fiorentina. Un’altra coppia di fidanzati, anch’essi appartati all’interno della loro automobile, viene assassinata. Pasquale Gentilcore, impiegato diciannovenne, viene colpito da 5 colpi di pistola, altri 3 colpiscono la sua fidanza, Stefania Pettini, segretaria di 18 anni. Attorni ai cadaveri vengono ritrovati i bossoli dei colpi esplosi. Cartucce calibro 22, marca Winchester, tutte marchiate e con una lettera H sul fondello. L’esame balistico rivelerà che i proiettili sono stati sparati da una pistola Beretta, serie 70, calibro 22 Long Rifle.
Un particolare sconvolge gli inquirenti, si tratta degli stessi proiettili e della stessa arma che, sei anni prima, hanno ucciso Antonio Lo Bianco e Barbara Locci.
Una scoperta sconvolgente non solo perchè in grado di scagionare il presunto colpevole del primo duplice omicidio, ma soprattutto perchè mette di fronte, forze investigative ed opinione pubblica, ad una drammatica certezza: si ha a che fare con un omicida seriale, un mostro, il “Mostro di Firenze”.
Uno spietato assassino che colpirà ancora, altri sei duplici omicidi, perpetrati tra il 1981 ed il 1985.
Un mostro mette ancora più paura quando è oscuro, misterioso, quando non se ne conosce il volto. Ancora oggi non appare chiaro quale sia il volto del “Mostro di Firenze”. Per alcuni, in parte per il tribunale di Firenze, si tratta di un mostro a tre teste, quelle dei “compagni di merende” Pacciani, Vanni e Lotti, ma sono molte le ipotesi e le piste battute alla ricerca dei veri colpevoli, da quelle legate alla malavita sarda passando per riti esoterici e tesi complottistiche.
A ripercorrere le sanguinose tappe di questa vicenda ci pensa dunque una serie televisiva. Protagonista della fiction è Ennio Fantastichini che interpreta il ruolo di Renzo Rontini, padre di Pia, la penultima vittima del “Mostro”, uccisa assieme al fidanzato nel 1984. Un padre che non ha mai voluto darsi per vinto e che per anni ha inseguito con la forza della disperazione la verità sulla morte della figlia.
Sembra difficile riuscire a portare sul piccolo schermo una storia così sanguinosa e così drammatica come quella che ha sconvolto Firenze e l’Italia per quasi trent’anni, ma a far ben sperare è la presenza all’interno del progetto di tre autori, Daniele Cesarano, Barbara Petronio e Leonardo Valenti, che già hanno saputo adattare televisivamente un altro grande mistero italiano, quello della banda della Magliana, con l’ottima: “Romanzo Criminale - La Serie”.

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Man On Wire

Da L'Arena di Verona.

New York, 7 agosto, 1974. Sono da poco passate le sette del mattino e mentre la Grande Mela si sta svegliando, un folto numero di persone è accalcato ai piedi del World Trade Center. Tutti stanno guardando verso l’alto, scrutando con attenzione qualcosa lontano più di quattrocento metri dal loro naso. Si scorge un cavo, una fune che collega i tetti delle due torri gemelle e sopra di esso, sospeso nel vuoto, qualcosa sembra muoversi. Qualcosa, di certo non qualcuno, è questo il primo pensiero dei presenti. Chi mai sarebbe così pazzo da percorrere, sospeso nel vuoto e camminando su di una fune larga pochi centimetri, i quarantatré metri che separano le due torri? Nessuno! E’ Impossibile.


Walt Disney sosteneva spesso che “C’è qualcosa di divertente nel realizzare l’impossibile”. Philippe Petit ha fatto del realizzare l’impossibile la sua vita. Divertendosi. Era lui quel qualcuno che passeggiava sorridente da una torre all’altra quel 7 agosto 1974. “Man on wire”, acclamato documentario, vincitore di un premio Oscar e recentemente pubblicato in DVD da Feltrinelli, racconta questa impresa ed il suo principale protagonista: Philippe Petit.
Philippe Petit, nasce nel 1949 a Nemours, piccolo comune francese distante solo pochi chilometri da Parigi. Figlio di un ex pilota militare, Philippe non è uno studente modello, sono molti i suoi interessi ma tra questi non va di certo annoverato lo studio e così, dopo essere stato cacciato da cinque istituti scolastici diversi, decide di scappare di casa all’età di quindici anni. Fuggito a Parigi il giovane Philippe si avvicina al funambolismo e, da autodidatta, impara l’arte della camminata sulla corda. Tutto sembra venirgli molto facile tant’è che, dopo un solo anno di apprendimento, stanco delle tecniche fino ad allora comuni, decide di inventare nuovi passaggi e nuovi modi di affrontare la fune.
Non è ancora abbastanza. Perfezionista di carattere spesso maniacale, Petit, sebbene già tra i migliori interpreti dell’arte funambolica, vuole fare di più, vuole avvicinarsi ai limiti più estremi della disciplina ed abbatterli, riscriverli e poi, non contento, abbatterli nuovamente. Una sorta di eterna battaglia contro se stesso, contro la propria arte, e, soprattutto, contro l’impossibile.
Sono proprio l’impossibile, l’irrealizzabile ed il non concepibile ad affascinare Petit e così, in poco tempo, stupisce il mondo intero camminando prima su di una fune tesa tra le due torri di Notre Dame de Paris e poi su di un’altra posizionata tra i due piloni portanti del Ponte di Sidney in Australia.
Due imprese difficilmente eguagliabili, ma l’abbiamo già detto, i limiti esistono per essere abbattuti. E’ il 1968 ed il funambolo francese, afflitto da un forte di mal di denti, sta sfogliando una rivista nella sala d’attesa di uno studio dentistico. Nella rivista si parla della costruzione di due torri, le più alte del mondo, che sarebbero state edificate a New York da lì a a 5 anni e si sarebbero chiamate World Trade Center. Come la più classica delle ispirazioni pronta a colpire improvvisamente il più geniale degli artisti, Petit sente che quel luogo che ancora non esiste gli appartiene. Stacca la pagina dal giornale, scappa dallo studio dentistico ed inizia a pianificare il suo magnus opus, il suo capolavoro: camminare su di una fune tesa tra le due future torri gemelle.
Ci riesce quel già citato 7 agosto 1974, percorrendo otto volte il cavo che unisce le due torri, camminandoci per quarantacinque minuti, sedendovisi per salutare il proprio pubblico ed il gabbiano che gli svolazzava attorno. Il tutto, come testimonia una delle immagini più affascinanti e suggestive del documentario, senza abbandonare quel sincero sorriso che l’ha accompagnato per tutta l’impresa.
Il documentario, diretto da James Marsh, in un affascinante alternarsi di immagini d’archivio, interviste e spezzoni di fiction, ripercorre su di un doppio arco narrativo la camminata di Petit e la lunga e travagliata fase di preparazione. Da un punto di vista cinematografico, ciò che colpisce nel lavoro di Marsh, è la straordinaria opera di caratterizzazione che il regista è riuscito a mettere in atto. Allontanandosi dal carattere troppo spesso asettico che caratterizza molti prodotti documentaristi, il regista regala personalità al proprio lavoro attribuendogli atmosfere tipiche degli heist-movies americani.
Per questo, ma anche e soprattutto per l’unicità e la straordinarietà dell’evento narrato, può capitare di sentirsi coinvolti dal racconto in un’esperienza che non si discosta di molto dalla visione di veri film di fiction. Una storia così incredibile da non poter sembrare reale. Ma il contatto con la realtà, durante la visione di “Man on Wire”, arriva spesso quando meno ce lo si aspetta. Avviene come se, sospesi assieme a Petit a 400 metri d’altezza, ci si ricordasse di guardare verso il basso. Proprio in quel momento, nel tentativo di recuperare il respiro appena smarrito, ci si accorge che quello a cui si sta assistendo è il racconto di una storia vera, anzi, verissima, quella di un uomo e del suo travolgente desidero di realizzare l’impossibile. b.


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At least is beats the crap out of Batman Forever

C'è sempre qualcosa che non mi ha convinto del tutto in The Dark Knight.
Anche a Key of Awesome sono d'accordo con me ed affido alla loro genialità il compito di spiegarvi perchè.


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The Trilogy Meter



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Pubblicità progresso

Oggi vi segnalo il neo-aperto blog dell'amico e collega Adamo Dagradi.


Assieme al suo blog vi invito anche a recuperare il suo primo romanzo: "La felicità dei cani", edito da Mursia.

È un inverno gelido, il mare è increspato da onde color del piombo, i gabbiani
volano sopra i pescherecci di ritorno, mancano pochi giorni al 31 dicembre. Gli ispettori del XX distretto sono alle prese con un triplice omicidio consumato nella periferia di una città portuale, crocevia tra Est e
Ovest: i corpi di tre ragazze sono stati trovati fra le tombe di un cimitero dimenticato tra le case popolari e una rimessa di autobus. La squadra del commissario Orlando si mette sulle tracce del serial killer. Ma niente è ciò che sembra, e dalle nebbie criminali della città emerge una rete di connivenze insospettabili.
Un romanzo dalle atmosfere crepuscolari e inquietanti in cui gli esseri umani si dibattono nelle trame dell’esistenza. Sotto gli occhi indecifrabili dei cani, con i quali condividono sicurezze e frustrazioni di una vita alla catena.

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Dawn of the robots

Quanto è bella una città assalita da un'invasione di zombie?
Bellissima.
Insuperabile.
Certo che, a pensarci bene, anche una città invasa da dei robottoni giganti non sarebbe male.

Non so se Federico Alvarez sia arrivato a questa conclusione nello stesso modo, ma di certo l'idea non è mica stata male.

Eh no, perchè dall'idea del giovane uruguaiano è nato "Ataque de Pànico!", cortometraggio di 5 minuti che, dopo aver raccolto larga schiera di consensi nel web. ha attirato l'interesse dell'amato Sam Raimi che pare ne intenda produrre una versione estesa.

Si parla già gi un budget attorno ai 40 milioni di dollari per quello che viene già pubblicizzato come il nuovo District 9.

Vi incollo il video, intanto provo a pensare se un'invasione di zombie-robot potrebbe funzionare.



Via | Twitch

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