E quello di Chewbecca?

Salta fuori questi giorni, dopo più di 30 anni, il provino di Kurt Russel per il primo episodio di una trilogia di film fantascientifici che si dice non essere affatto male e che dovrebbe chiamarsi Star Wars.


Pare che la parte sia poi andata a tale Harrison Ford, divenuto poi famoso nel sottobosco del cinema indipendente per aver interpretato un archeologo che salva il mondo combattendo prima con i nazisti e poi, per par condicio, contro i comunisti.



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Il Mostro di Firenze

Da Brescia Oggi

Quasi tutti, fin da piccoli, hanno avuto paura dei mostri. Mostri cinematografici, mostri letterari, mostri immaginari. Ciò che li ha sempre accomunati è il loro carattere extra-umano. Creature fantastiche, così distanti, fisicamente e moralmente, da noi comuni mortali.
Ma purtroppo, sempre fin da piccoli, siamo stati costretti a maturare una certezza: i mostri possono anche essere umani, terribilmente umani. Ce l’ha insegnato la cronaca nera e con lei i protagonisti, carnefici e vittime, che ne hanno drammaticamente animato i racconti.
All’interno dell’affollato insieme dei “mostri” italiani, uno più degli altri ha saputo identificarsi con quella natura disumana e malvagia con cui si è soliti connotare il termine.
Un mostro senza nome (oppure, secondo molti, con più di un nome), che per ventisette anni, tra il 1968 ed il 1985, ha seminato il terrore attorno a Firenze con l’efferatezza degli otto duplici omicidi che gli sono stati attribuiti.
Stiamo parlando del “Mostro di Firenze”, il protagonista di una delle pagine più nere della storia della nostra nazione, da sempre oggetto del più ossessivo degli interessi da parte dei media. Infatti, dopo aver riempito migliaia di pagine di giornali, essere stato oggetto di interesse di numerose opere letterarie e protagonista di un film a lui dedicato nel 1986, il “Mostro di Firenze” si appresta a sbarcare sul piccolo schermo con la miniserie in sei episodi intitolata “Il Mostro di Firenze”, diretta da Antonello Grimaldi ed in onda su Fox Crime dal 12 novembre.
La storia del “Mostro” inizia il 21 agosto 1968, quando a Signa, una cittadina a pochi chilometri da Firenze, vengono ritrovati i corpi di Antonio Lo Bianco e Barbara Locci, una coppia di amanti assassinata a colpi di pistola mentre si trovava appartata all’interno di una Alfa Romeo Giulietta. Il delitto diviene fin da subito oggetto di una intricata indagine giudiziaria che vedrà il marito di Barbara Locci, Stefano Mele, finire in carcere per l’omicidio della moglie e dell’amante. Nonostante la condanna di Mele qualcosa sembra non tornare. L’arma del delitto non viene ritrovata e le varie confessioni di Mele appaiono spesso discordanti e non particolarmente credibili.
Passano sei anni ed un nuovo omicidio sconvolge la tranquillità della provincia fiorentina. Un’altra coppia di fidanzati, anch’essi appartati all’interno della loro automobile, viene assassinata. Pasquale Gentilcore, impiegato diciannovenne, viene colpito da 5 colpi di pistola, altri 3 colpiscono la sua fidanza, Stefania Pettini, segretaria di 18 anni. Attorni ai cadaveri vengono ritrovati i bossoli dei colpi esplosi. Cartucce calibro 22, marca Winchester, tutte marchiate e con una lettera H sul fondello. L’esame balistico rivelerà che i proiettili sono stati sparati da una pistola Beretta, serie 70, calibro 22 Long Rifle.
Un particolare sconvolge gli inquirenti, si tratta degli stessi proiettili e della stessa arma che, sei anni prima, hanno ucciso Antonio Lo Bianco e Barbara Locci.
Una scoperta sconvolgente non solo perchè in grado di scagionare il presunto colpevole del primo duplice omicidio, ma soprattutto perchè mette di fronte, forze investigative ed opinione pubblica, ad una drammatica certezza: si ha a che fare con un omicida seriale, un mostro, il “Mostro di Firenze”.
Uno spietato assassino che colpirà ancora, altri sei duplici omicidi, perpetrati tra il 1981 ed il 1985.
Un mostro mette ancora più paura quando è oscuro, misterioso, quando non se ne conosce il volto. Ancora oggi non appare chiaro quale sia il volto del “Mostro di Firenze”. Per alcuni, in parte per il tribunale di Firenze, si tratta di un mostro a tre teste, quelle dei “compagni di merende” Pacciani, Vanni e Lotti, ma sono molte le ipotesi e le piste battute alla ricerca dei veri colpevoli, da quelle legate alla malavita sarda passando per riti esoterici e tesi complottistiche.
A ripercorrere le sanguinose tappe di questa vicenda ci pensa dunque una serie televisiva. Protagonista della fiction è Ennio Fantastichini che interpreta il ruolo di Renzo Rontini, padre di Pia, la penultima vittima del “Mostro”, uccisa assieme al fidanzato nel 1984. Un padre che non ha mai voluto darsi per vinto e che per anni ha inseguito con la forza della disperazione la verità sulla morte della figlia.
Sembra difficile riuscire a portare sul piccolo schermo una storia così sanguinosa e così drammatica come quella che ha sconvolto Firenze e l’Italia per quasi trent’anni, ma a far ben sperare è la presenza all’interno del progetto di tre autori, Daniele Cesarano, Barbara Petronio e Leonardo Valenti, che già hanno saputo adattare televisivamente un altro grande mistero italiano, quello della banda della Magliana, con l’ottima: “Romanzo Criminale - La Serie”.

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Man On Wire

Da L'Arena di Verona.

New York, 7 agosto, 1974. Sono da poco passate le sette del mattino e mentre la Grande Mela si sta svegliando, un folto numero di persone è accalcato ai piedi del World Trade Center. Tutti stanno guardando verso l’alto, scrutando con attenzione qualcosa lontano più di quattrocento metri dal loro naso. Si scorge un cavo, una fune che collega i tetti delle due torri gemelle e sopra di esso, sospeso nel vuoto, qualcosa sembra muoversi. Qualcosa, di certo non qualcuno, è questo il primo pensiero dei presenti. Chi mai sarebbe così pazzo da percorrere, sospeso nel vuoto e camminando su di una fune larga pochi centimetri, i quarantatré metri che separano le due torri? Nessuno! E’ Impossibile.


Walt Disney sosteneva spesso che “C’è qualcosa di divertente nel realizzare l’impossibile”. Philippe Petit ha fatto del realizzare l’impossibile la sua vita. Divertendosi. Era lui quel qualcuno che passeggiava sorridente da una torre all’altra quel 7 agosto 1974. “Man on wire”, acclamato documentario, vincitore di un premio Oscar e recentemente pubblicato in DVD da Feltrinelli, racconta questa impresa ed il suo principale protagonista: Philippe Petit.
Philippe Petit, nasce nel 1949 a Nemours, piccolo comune francese distante solo pochi chilometri da Parigi. Figlio di un ex pilota militare, Philippe non è uno studente modello, sono molti i suoi interessi ma tra questi non va di certo annoverato lo studio e così, dopo essere stato cacciato da cinque istituti scolastici diversi, decide di scappare di casa all’età di quindici anni. Fuggito a Parigi il giovane Philippe si avvicina al funambolismo e, da autodidatta, impara l’arte della camminata sulla corda. Tutto sembra venirgli molto facile tant’è che, dopo un solo anno di apprendimento, stanco delle tecniche fino ad allora comuni, decide di inventare nuovi passaggi e nuovi modi di affrontare la fune.
Non è ancora abbastanza. Perfezionista di carattere spesso maniacale, Petit, sebbene già tra i migliori interpreti dell’arte funambolica, vuole fare di più, vuole avvicinarsi ai limiti più estremi della disciplina ed abbatterli, riscriverli e poi, non contento, abbatterli nuovamente. Una sorta di eterna battaglia contro se stesso, contro la propria arte, e, soprattutto, contro l’impossibile.
Sono proprio l’impossibile, l’irrealizzabile ed il non concepibile ad affascinare Petit e così, in poco tempo, stupisce il mondo intero camminando prima su di una fune tesa tra le due torri di Notre Dame de Paris e poi su di un’altra posizionata tra i due piloni portanti del Ponte di Sidney in Australia.
Due imprese difficilmente eguagliabili, ma l’abbiamo già detto, i limiti esistono per essere abbattuti. E’ il 1968 ed il funambolo francese, afflitto da un forte di mal di denti, sta sfogliando una rivista nella sala d’attesa di uno studio dentistico. Nella rivista si parla della costruzione di due torri, le più alte del mondo, che sarebbero state edificate a New York da lì a a 5 anni e si sarebbero chiamate World Trade Center. Come la più classica delle ispirazioni pronta a colpire improvvisamente il più geniale degli artisti, Petit sente che quel luogo che ancora non esiste gli appartiene. Stacca la pagina dal giornale, scappa dallo studio dentistico ed inizia a pianificare il suo magnus opus, il suo capolavoro: camminare su di una fune tesa tra le due future torri gemelle.
Ci riesce quel già citato 7 agosto 1974, percorrendo otto volte il cavo che unisce le due torri, camminandoci per quarantacinque minuti, sedendovisi per salutare il proprio pubblico ed il gabbiano che gli svolazzava attorno. Il tutto, come testimonia una delle immagini più affascinanti e suggestive del documentario, senza abbandonare quel sincero sorriso che l’ha accompagnato per tutta l’impresa.
Il documentario, diretto da James Marsh, in un affascinante alternarsi di immagini d’archivio, interviste e spezzoni di fiction, ripercorre su di un doppio arco narrativo la camminata di Petit e la lunga e travagliata fase di preparazione. Da un punto di vista cinematografico, ciò che colpisce nel lavoro di Marsh, è la straordinaria opera di caratterizzazione che il regista è riuscito a mettere in atto. Allontanandosi dal carattere troppo spesso asettico che caratterizza molti prodotti documentaristi, il regista regala personalità al proprio lavoro attribuendogli atmosfere tipiche degli heist-movies americani.
Per questo, ma anche e soprattutto per l’unicità e la straordinarietà dell’evento narrato, può capitare di sentirsi coinvolti dal racconto in un’esperienza che non si discosta di molto dalla visione di veri film di fiction. Una storia così incredibile da non poter sembrare reale. Ma il contatto con la realtà, durante la visione di “Man on Wire”, arriva spesso quando meno ce lo si aspetta. Avviene come se, sospesi assieme a Petit a 400 metri d’altezza, ci si ricordasse di guardare verso il basso. Proprio in quel momento, nel tentativo di recuperare il respiro appena smarrito, ci si accorge che quello a cui si sta assistendo è il racconto di una storia vera, anzi, verissima, quella di un uomo e del suo travolgente desidero di realizzare l’impossibile. b.


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At least is beats the crap out of Batman Forever

C'è sempre qualcosa che non mi ha convinto del tutto in The Dark Knight.
Anche a Key of Awesome sono d'accordo con me ed affido alla loro genialità il compito di spiegarvi perchè.


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The Trilogy Meter



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Pubblicità progresso

Oggi vi segnalo il neo-aperto blog dell'amico e collega Adamo Dagradi.


Assieme al suo blog vi invito anche a recuperare il suo primo romanzo: "La felicità dei cani", edito da Mursia.

È un inverno gelido, il mare è increspato da onde color del piombo, i gabbiani
volano sopra i pescherecci di ritorno, mancano pochi giorni al 31 dicembre. Gli ispettori del XX distretto sono alle prese con un triplice omicidio consumato nella periferia di una città portuale, crocevia tra Est e
Ovest: i corpi di tre ragazze sono stati trovati fra le tombe di un cimitero dimenticato tra le case popolari e una rimessa di autobus. La squadra del commissario Orlando si mette sulle tracce del serial killer. Ma niente è ciò che sembra, e dalle nebbie criminali della città emerge una rete di connivenze insospettabili.
Un romanzo dalle atmosfere crepuscolari e inquietanti in cui gli esseri umani si dibattono nelle trame dell’esistenza. Sotto gli occhi indecifrabili dei cani, con i quali condividono sicurezze e frustrazioni di una vita alla catena.

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Dawn of the robots

Quanto è bella una città assalita da un'invasione di zombie?
Bellissima.
Insuperabile.
Certo che, a pensarci bene, anche una città invasa da dei robottoni giganti non sarebbe male.

Non so se Federico Alvarez sia arrivato a questa conclusione nello stesso modo, ma di certo l'idea non è mica stata male.

Eh no, perchè dall'idea del giovane uruguaiano è nato "Ataque de Pànico!", cortometraggio di 5 minuti che, dopo aver raccolto larga schiera di consensi nel web. ha attirato l'interesse dell'amato Sam Raimi che pare ne intenda produrre una versione estesa.

Si parla già gi un budget attorno ai 40 milioni di dollari per quello che viene già pubblicizzato come il nuovo District 9.

Vi incollo il video, intanto provo a pensare se un'invasione di zombie-robot potrebbe funzionare.



Via | Twitch

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Moonbase Alpha, we have a problem!

Che gli sceneggiatori seriali statunitensi stiano, oramai da tempo, raschiando il fondo del barile non è certo una gran scoperta.
Al dì là delle eccezioni che una produzione vasta come quella statunitense non può non prevedere, ogni stagione televisiva vede ripetersi all'infinito prodotti per lo più banali e fortemente standardizzati.
In questa pochezza di idee e di vivacità creativa, anche l'industria televisiva ha iniziato quel processo che al cinema prosegue oramai da tempo: remake remake remake!
E' soprattutto la fantascienza ad essere oggetto del più vivo degli interessi da parte dei remakers americani. Battlestar Galactica, Visitors, Il prigioniero, sono queste solo alcune delle serie di recente rifatte per il mercato USA.

Io9 ha pubblicato un'interessantissimo articolo che si propone di promuovere una causa: "Il mondo ha bisogno di un nuovo Spazio 1999".

So it's really high time that the cheesiest, strangest, most metaphysical space opera of them all returned: Space: 1999!
Stilt appoggia la causa.


Via | Io9


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Something Something Something DarkSide

Finalmente star arrivando!


L'autocitazione e Bobba Fett/Ernie The GIant Chicken valgono da soli l'intero trailer.
"Why you stuck-up, half-witted, scruffy-looking nerf herder!"
"You can't use that word! Only we can use that word!"

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When it comes to bullshit...


Stasera ho visto Religulous, documentario scritto e "interpretato" da Bill Maher, uno dei più famosi ed importanti stand-up comedian statunitensi.
Il film rappresenta un dissacrante e dissacrato viaggio alla nei paradossi, nelle ipocrisie e nelle doppiezze delle religioni, dei suoi portavoce e dei suoi adepti.



Bill Maher, pur risentendo, seppur non in maniera esponenziale, il passaggio dal palcoscenico alla sala cinematografica, mantiene intatta l'efficacia dei suoi speech e nonostante le risate (amare) si susseguano numerose, queste non tolgono credibilità e fondatezza alle opinioni del comico.
A prova di questo andrebbe considerato anche e solo il monologo finale di Maher, pochi minuti di riflessione sul deleterio e catastrofico valore delle religioni, tutte le religioni, nella cultura moderna.

Maher non è certamente il primo comico a trattare il tema della religioni.
Ricky Gervais ne parla spesso, David Cross pure, ma un comico più di altri ha trattato si è occupato di religione: il compianto ed inarrivabile George Carlin.

Quello che vedete sotto è, in dieci minuti, il più grande trattato sulla religione mai stato creato:



Religion easily has the greatest bullshit story ever told. Think about it. Religion has actually convinced people that there's an invisible man living in the sky who watches everything you do, every minute of every day. And the invisible man has a special list of ten things he does not want you to do. And if you do any of these ten things, he has a special place, full of fire and smoke and burning and torture and anguish, where he will send you to live and suffer and burn and choke and scream and cry forever and ever 'til the end of time.
But He loves you. He loves you, and He needs money! He always needs money!
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Zombies do not eat candies

Common Craft ci regala una meravigliosa guida agli zombie in plain english.

Attenzione agli zombie infuocati, possono essere ancora più pericolosi.




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Tv Party presenta: Psychoville

A volte bisogna rassegnarsi.
Alcune delle cose in cui si crede fermamente, tipo che i Ramones sono il miglior gruppo di sempre, che Ozpetek fa schifo e che Avatar sarà una roba inguardabile, non sempre condivise dagli Altri.
Se gli Altri tali certezze non le condividono forse non c'è troppo da stupirsi.
Basta pensare a quanti, tra quegli Altri, affermano con ostentata sicurezza:

A me l'umorismo inglese mica fa ridere. 
Pazzi!
A me fa ridere.
Tanto.

L'ultimo prodotto della commedia britannica è Psychoville, serie di sette episodi (da poco conclusi) trasmessa su BBCTWO.
Scritta da due dei quattro membri della League of Gentlemen, Pychoville incarna alla perfezione tutto quello che la sit-com inglese, magnificamente, è, e, allo stesso tempo tutto quello che la sua controparte statunitense non è.
Cos'è?
Grottesca, paradossale, scorretta, drammaturgicamente avvincente e inglese, tremendamente inglese.



La storia, nella sua forma embrionale, è piuttosto semplice. 
Sei personaggi, piuttosto diversi tra loro ma misteriosamente e macambramente uniti, diventano oggetto di altrettanto misteriosi e macabri messaggi di minaccia. 
Il primo di questi messaggi? Piuttosto chiaro "I know what you did". 
La prima grande forza di Psychoville è da ritrovare proprio nei suoi protagonisti.
Mr. Jelly, un clown senza una mano decadente nell'aspetto fisico e nella carriera; David, un giovane ossessionato dai serial killer e protagonista di un rapporto piuttosto ambiguo con la madre Maureen; Oscar Lomax è un vecchio milionario non-vedente che ha costruito la sua fortuna collezionando pupazzi di peluche; Joy Aston è un infermiera di Bristol convinta che il bambolotto con il quale istruisce le neo mamme alle cure dei neonati sia suo figlio; Robert Greenspan è una persona diversamente alta (aka nano) impegnato sul set dell'adattamento teatrale di Biancaneve ed i sette nani ed apparentemente in possesso di straordinari poteri telecinetici.
Personaggi (magistralmente interpretati dai rispettivi attori),  che vivono nel grottesco e nel paradossale, dei moderni freaks inseriti nella vita comune nonostante il loro marcato distacco nei confronti del "normale". 

Proprio nel grottesco e nel paradossale si muovono abilmente le dinamiche tipiche della commedia all'inglese: i tempi dilatati, il cinismo, il politicamente scorretto e l'inadeguato, spesso in bilico su quel confine che segna la separazione tra comicità e cattivo gusto.


Ma quello che a mio parere ha donato a Psychoville una piccola dose di novità alla sit com britannica e di aver inserito massice dosi di serializzazione e di continuità narrativa all'interno di un prodotto apparentemente destinato alla autoconclusività del racconto. 
Una serie come Psychoville, forte anche delle precedenti esperienze dei suoi autori gentiluomini, era lecito immaginarsela come uno sketch comedy show, una serie alla Monty Python fatta di brevi "scenette comiche" magari riprendendo qua e là personaggi comuni. 
Invece Psychoville non solo racconta una storia in ogni episodio ma addirittura fa della continuità interepisodica uno dei suoi punti di forza, sviluppando un racconto in sette episodi capace di generare interesse continuo e senza cali. 
Colpi di scena, twist narrativi e cliffhangers si inseriscono così in una sit-com generando una sorta di ibridazione che credo difficilmente possa costituire un esempio al di fuori del Regno Unito. 
Lì c'era Shakespeare da cui prendere esempio, oltre la manica ci sono solo network che, ancora oggi, vedono la sit-com, come il primo prodotto di appeal per le vendite pubblicitarie ed il più rassicurante dei prodotti televisivi, quello dove non importa a che punto e in che puntata si ritorna a vederlo, tutto è ancora fermo, immobile e senza aver mutato nè forma nè personaggi.
In soli sette episodi invece i personaggi di Psychoville si muovono e si spostano, nello spazio (abbandonando quella regola non scritta che vede in una sit la presenza di al massimo 3-4 locations) e nel loro stesso essere, modificandosi, cambiando ed in qualche modo evolvendosi, lasciando però intatto il loro distintivo carattere comico.
 
Sempre peculiarmente e stupendamente inglese è la maestria con cui Psychoville prende in prestito citazioni e riferimenti dal cinema, dalla televisione e dalla letteratura di genere. Archetipi, stereotipi e clichès del cinema horror, delle vecchie serie noir e della letteratura gotica vengono citati, onorati, stravolti ed utilizzati con fini comici. Magistrale a tal proprosito è tutto il quarto episodio della serie: "Give 'em enough rope", un piano sequenza di 25 minuti fatto di continue e dirette citazioni al cinema di Alfred Hitchcok.



In attesa di una seconda stagione che, seppur non ancora ufficializzata, mi sembra scontata, Psychoville è da considerasi una piccola gemma da recuperare e a cui guardare con ammirazione.

E gli inglesi fanno ridere!

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Tv Party!

Con questo post si apre la prima rubrica di Stilt.

Si chiama Tv Party e vuole raccogliere le mie recensioni/impressioni/sproloqui sulle serie tv che mi capita di vedere.

A breve il primo post.

Nel mentre mi concedo questa sigla, allright!



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I 20 film preferiti di un mento sporgente

Scoprire che a Mr. Q. Tarantino il cinema non è che faccia proprio schifo è un pò come scoprire che il presidente del consiglio di una nazione europea fatta a forma di stivale non è proprio una persona onesta. 

In attesa dell'uscita italiana del suo Inglourious Basterds (che negli U.S.A sta andando, dal punto di vista del botteghino, decisamente meglio del previsto), ecco un video dove il mento più sporgente del mondo passa in rassegna i suoi 20 film preferiti dal 1992 ad oggi.

Nella lista c'è Shaun of the Dead e quindi, anche solo per questo, valeva la pena di postarlo.



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Paura eh...

Da L'Arena di Verona


La faccia nascosta della luna


Cantanti, rockstars, attori, registi. Qual’è l’abitudine più comune del pubblico nel giudicare tali categorie di persone? Ce li immaginiamo eterei, intoccabili, inavvicinabili, quasi come fossero abitanti di un altro pianeta, o perchè no, della luna.

Ma i Pink Floyd ci hanno insegnato che esiste un altra faccia della luna, un luogo in cui, come descriveva Ariosto nel suo “Orlando Furioso”, sono destinate le menti, le certezze e le concretezze di chi, nella terra, ha perso la ragione. 

Proprio in questo luogo, in questo lato oscuro della luna, sembrano molte le star del cinema e della musica a reclamare cittadinanza. 

Parla proprio di loro il nuovo libro di Carlo Lucarelli “La faccia nascosta della luna. Storie di delitti e misteri tra musica, cinema e dintorni”. Un libro in cui il noto giallista emiliano racconta le storie di quegli angeli caduti, quelle star, che sono state viste implicate in casi di omicidi, suicidi, sparizioni, guai giudiziari e molti altri casi incredibili che rimangono semplicemente misteriosi. A volte vittime, a volte carnefici, direttamente coinvolti o indirettamente responsabili, le celebrità protagoniste di casi di cronaca sono state molte e diverse tra loro.

Perchè qualcuno sostiene che Marilyn è ancora viva?

Perchè Jimi Hendrix e tanti altri sono morti a ventisette anni? Verrà mai risolta l’ossessione chiamata Dalia Nera? Luigi Tenco, suicidio od omicidio? Il rock è veramente la musica del demonio?

Trentanove storie, trentanove casi, contraddistinti dall’apparente impossibilità di tessere un filo comune che possa erigersi ad unico comune denominatore.

Forse è proprio quell’altra faccia della luna la base di queste storie.

Lucarelli, con la straordinaria forza narrativa che ne ha da sempre contraddistinto la scrittura, riesce ad immaginare un territorio comune, una sorta di non luogo, dove la metà più oscura di ogni artista riesce con forza a prevalere sulla ragione e sulla coscienza.

Il lettore, allo stesso tempo spettatore, ascoltatore e fan, non può che sentirsi catturato da questi racconti che riescono nel tentativo di sviluppare una sorta di empatia nei confronti degli angeli caduti del mondo dello spettacolo. 

Forse perchè è proprio l’errore, il dramma ed il peccato a farceli sentire vicini, privandoli di quel senso di intoccabilità che li ha da sempre caratterizzati e facendoceli sentire umani. 

Terribilmente umani.


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You are Number Six

Il Prigioniero è la miglior serie televisiva di sempre.
Immaginatevela, non la conosceste, come la più incredibile trasposizione audiovisiva di un libro.

Il libro è 1984 ma The Prisoner non è un adattamento diretto del libro in questione.
Patrick McGoohan, il geniale creatore/sceneggiatore/regista/protagonista de Il Prigioniero fu in grado di portare in video le atmosfere Orwelliane con una maestria ed un efficacia assolutamente unica.
Cultura e controcultura, democrazia e dittatura, libertà e prigionia.
La serie (come 1984) è, nei temi trattati e nel modo di affrontarli, di eterna (e drammatica) attualità.
Ecco che, nel tentativo di bissare il recente reboot di un'altra serie inglese del passato, Doctor Who, qualcuno ha pensato di dare vita ad una nuova messa in scena delle avventure del Prigionero Numero Sei.
Il nuovo The Prisoner comparirà sotto forma di racconto diviso in sei episodi nel novembre di quest'anno, frutto di una collaborazione tra AMC ed ITV, la serie che originariamente produsse Il Prigioniero  nel 1967.

Il prima trailer, uscito oggi, non sembra dire molto e soprattutto non sembra tranquillizzare le preoccupazioni del molti fan della serie sparse per il mondo.
Già la scelta della location del Villaggio ha lasciato molti appassionati quantomeno perplessi.
E' stato infatti abbandonato il magnifico e surreale Hotel Portmerion per preferire ambientare la serie in un deserto.

Speriamo bene...




Via /Film

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TBFCAP aka The Big Fuckin' Chainsaw Arm Post

Pubblicizzato come il ritorno all'horror vecchia scuola di Sam Raimi questo Drag me to Hell sembra promettere bene.
La vecchia scuola c'è tutta; ci sono le messe sataniche, c'è la musica che fa la paura e soprattutto c'è la vecchia con un occhio diverso dall'altro.

Se poi alla fine, a salvare tutti dalla discesa agli inferi, arrivasse Ash Williams ed il suo chainsaw arm sarebbe ancora più bello.

Però mi sa di no.



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Stilt è in costruzione

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Ma manca poco e qualcosa c'è già.

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So you had better do as you are told you better listen to the radio


Citando il vero Elvis...
Tra un pò, talmente poco che devo muovermi altrimenti arrivo in ritardo, sono in radio a parlare di questo.

Mai di Giovedì
11/06/2009
Ore 21,00




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Intervista a Gipi

Da L'Arena di Verona

Secondo molti, il miglior romanzo pubblicato in Italia nell’anno appena finito è un fumetto, per giunta e per esplicita ammissione dell’autore, disegnato male. 

“LMVDM - La mia vita disegnata male” (Coconino Press) è il racconto, a tratti confuso e logorroico ma non per questo meno efficace ed appassionante, di una vita, quella del suo autore: Gipi (Gianni Pacinotti), globalmente riconosciuto come uno dei più talentuosi fumettisti del mondo. Il Wall Street Journal ha scritto che Gipi  “non ha rivali nella raffigurazione delle pose e delle svogliatezze dell’adolescenza” e l’ha inserito nella lista dei più talentuosi autori di graphic novels d’Europa.

Un testo così autobiografico come LMVDM nasce per soddisfare un bisogno personale dell’autore?E’ riuscito ad adempire a tale compito?

Non so ancora se scrivere LMVDM è servito a qualcosa, a livello intimo e personale. Certo è che una speranza di guarigione c'era ed in questo caso “guarigione” si accosta a "comprensione". Comprensione dell'origine dei miei sfaceli sentimentali, di quella che dall'esterno (e pure dall'interno quando sono triste) può apparire come una vera e propria incapacità di amare, una coazione a ripetere atteggiamenti distruttivi nei rapporti amorosi.

E' questo il motivo, o almeno uno dei motivi principali, per cui ho lavorato a questo libro. Capire l'origine dei disastri perpetrati nella mia vita piccola e sperare, così, di non trovarmi a ripeterli.

I ricordi, come quelli a cui ti sei affidato per la stesura di LMVDM, possono vivere in bilico tra realtà è immaginario. Quanto è “vero” un ricordo?

Non ho sufficiente fiducia nella mia capacità di percepire le cose e ricordarle, per affermare che un ricordo "è vero".

La mia percezione dell'esistenza è sempre talmente frammentata e fragile, da scivolare facilmente nell'irreale. Alla fine, però, sono quasi giunto alla conclusione che irrealtà, invenzione e percezioni errate siano "reali" o addirittura "vere".

Ho sempre una smania di traduzione di vita nella scrittura. Ora ho l'impressione che riesca ad avvicinarmi alla realizzazione di questo intento solo abbandonandomi al caos e all'imprecisione, perchè questo caos e questa imprecisione mi sembrano parte integrante dell'esistenza.

Se non "mi perdessi", se non fossi confuso, nel raccontare, non credo che trasmetterei quel senso di indefinibilità che per me è una delle basi dell'esperienza di stare al mondo.

Proprio parlando di questo tuo “perderti”, LMVDM sembra una perfetta commistione tra un’inarrestabile flusso di coscienza ed una metodica ed attenta costruzione di una storia.

E' il flusso di coscienza di una persona che fa un mestiere che impone il controllo sulla struttura.

Quindi è una commistione tra abbandono e controllo.

Nello scrivere cerco di privilegiare l'abbandono, l'istinto ed anche l'incoscienza, ma rimane comunque sempre vigile una specie di commissario che sorveglia quello che faccio e mi parla. Mi impone spesso dei freni e delle regole, in modo che, comunque e per quanto folle, la narrazione possa risultare comprensibile.

E' una dualità che fa parte del mio carattere, immagino. Una lotta tra la voglia di scompigliare ogni regola e un desiderio di pace e normalità.

Le pagine di LMVDM sono state tutte improvvisate ma tra una sessione di lavoro e l'altra, i dubbi e le paure di non risultare comprensibile lavoravano segretamente, indirizzando l'improvvisazione su un percorso che mantenesse un senso.

Credo che sia un processo simile a quello messo in atto da chi suona jazz. Si improvvisa, ci si abbandona, si, ma si resta su una progressione di accordi condivisa. Comprensibile.

In Italia è molto semplice salire sul carrozzone dei vincenti e sono già in molti a considerarti “il salvatore” del fumetto italiano attribuendoti responsabilità (più implicite che esplicite) che difficilmente possono competere ad un autore. La senti questa pressione?

Si. L'ho sentita un pò dopo la mia apparizione in tv (intervistato da Daria Bignardi a “Le Invasioni Barbariche”). Ma è pure svanita in fretta. Alla fine ho un legame con il lavoro di raccontare storie che credo sia onesto e che mi fa dimenticare il contesto. Dimentico il mondo del fumetto, le aspettative degli editori. C'è una base di anarchia dietro il processo di invenzione e scrittura che finora, credo, mi ha salvato, lasciandomi intatta la libertà.

Non so se durerà per sempre. Cerco di fare attenzione. non cedere alla vanità. Ritornare sempre al punto originale: l'amore per il racconto, la passione per il disegno. Un amore ed una passione infantili, che sono sempre stati là e non sono, alla fine, troppo mutati da quando ero un ragazzino. 


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Kill Mario Kill!


Da L'Arena di Verona

Quali sono i registi italiani più apprezzati e stimati dal cinema hollywoodiano? Federico Fellini? Sicuramente. Sergio Leone? Senza dubbio. Giancarlo Antognoni? Impossibile non citarlo. Una lista lunga e piuttosto malleabile ma inequivocabilmente accomunata dalla presenza costante di un elemento fuori dal coro, un insospettabile pecora nera. La pecora nera si chiama Mario Bava, il compianto regista autore di alcuni veri e propri cult-movies tra i quali, “La Maschera del Demonio”, “La ragazza che Sapeva troppo” ed “Operazione Paura”.
E’ di recente pubblicazione “Kill Baby Kill, il cinema di Mario Bava”. Edito da Un Mondo a Parte (www.unmondoaparte.it), il testo racconta il regista sanremese attraverso interviste e testimonianze di personaggi illustri del cinema americano ed italiano, opinioni di critici internazionali ed una ricca sezione di foto, di scena e fuori set. Ne abbiamo parlato con Gabriele Acerbo co-redattore del testo assieme a Roberto Pisoni.
In “Kill Baby Kill” sono presenti le testimonianze di veri e propri "mostri sacri" della cinematografia mondiale. In che modo il cinema di Bava è riuscito ad influenzare questi registi?
Negli anni ’60 i film di Bava arrivavano regolarmente in America, soprattutto nei circuiti dei drive-in e delle grindhouses. Cinefili come, tra gli altri, Joe Dante, Sam Raimi e John Landis furono folgorati dalla forza di quelle immagini, capaci di fissarsi indelebilmente nel cervello. L’eleganza e la complessità dei movimenti di macchina, i colori così accesi, la violenza sbalorditiva del cinema di Bava non poteva lasciare indifferente quello stuolo di registi che dei film ammira, soprattutto, l’aspetto visionario. Compreso Tarantino che, nel nostro libro, rivela che Bava è uno dei suoi cinque registi del cuore.
Bava è stato precursore nella realizzazione italiana di diversi generi cinematografici. Ha realizzato il primo horror gotico, il primo thriller, il primo slasher. Quale ritiene possano essere le motivazioni che hanno spinto Bava ad essere un regista ante-litteram?
Bava era un uomo colto con un amore, più che per il cinema, per la letteratura fantastica, gialla e horror. Forse questa passione lo ha spinto a trasferire queste tematiche nel cinema dei suoi tempi. Bava è riuscito a codificare per primo gli elementi del genere. Ad esempio, la figura dell’assassino mascherato con cappotto nero e guanti neri, propria di tutto il cinema giallo da Argento in poi, è un’immagine creata da Bava. Per quanto riguarda lo slasher-movie, inventato in uno dei film più amati dai fans, “Reazione a Catena”, l’intento del regista era soprattutto ironico: inventarsi morti ammazzati a ripetizione in modi truculenti e irreali per irridere il genere thriller. Poi sono arrivati gli americani che hanno tolto l’ironia e hanno costruito i loro film tutto sangue e senz’anima.
In un intervista, alla domanda "Come spiega che francesi e americani hanno apprezzato i suoi film molto più di noi?" Bava rispose: "Perché sono più fessi di noi". Fessi od in grado di cogliere qualcosa che in Italia, forse, non è stato mai recepito?
In Italia il cinema di genere è stato stroncato dalla critica che gli preferiva di gran lunga il cinema d’autore. Bava per decenni è stato considerato tutt’al più un artigiano che lavorava per l’industria, mai autore, mai un artista. E in generale, e questo discorso vale ancora oggi, i film horror e violenti di solito non piacciono affatto ai critici cinematografici.

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Lomo, non pensare, scatta!


Da L'Arena di Verona

Estate 1992. Il muro di Berlino è da poco caduto e l’est europeo diviene una delle mete preferite per le vacanze (very) low cost di migliaia di studenti. Una città più delle altre, Praga, si ritrova improvvisamente invasa da schiere di giovani provenienti da ogni parte del mondo, affascinati dal suo splendore artistico, dalla birra a poche corone, dalle bionde con gli occhi azzurri e dai numerosi mercatini delle pulci.
Proprio in un mercatino delle pulci, due studenti viennesi, Matthias Fiegl e Wolfgang Stranzinger, sono alla ricerca del più usato ed abusato tra gli strumenti di sopravvivenza del giovane vacanziere: una macchina fotografica. I soldi non sono molti e vanno inevitabilmente centellinati per la birra a poche corone, meglio se da offrire ad una qualche qualche bionda con gli occhi azzurri. Per questo i due giovani decidono di acquistare le più economiche tra le macchine fotografiche che il mercatino potesse offrire. La loro attenzione viene catturata dalle Lomo, macchine di fabbricazione russa, poco più robuste di un giocattolo e apparentemente non più performanti di una semplice usa e getta.
L’estate del 1992 giunge così al suo termine, Fiegl e Stranzinger procedono con lo sviluppo delle centinaia di scatti testimoni della loro vacanza. Ma da semplici testimoni di un’estate le fotografie scattate dalle Lomo divengono portatrici della riscoperta di una delle più affascinanti macchine fotografiche della storia. I due studenti iniziano così la loro irrefrenabile ricerca di nuove Lomo, riuscendo a coinvolgere un numero sempre maggiore di persone alla passione per quelle foto incredibilmente sature e quasi inspiegabilmente racchiuse in un surreale effetto di vignettatura che solo la Lomo sembra poter offrire. In poco tempo i due sono sommersi dalle richieste. Due mostre, una a New York, l’altra a Mosca, amplificano ancor di più il fenomeno della Lomo tanto che gli ormai ex studenti viennesi decidono di tramutare la loro nuova passione in un vero e proprio lavoro con la fondazione della Lomographic Society. Nel 1996, l’allora sindaco di San Pietroburgo Vladimir Putin stringe un accordo con Fiegl e Stranzinger per la distribuzione esclusiva della LC-A, la più diffusa Lomo al mondo.
Sono passati più di quindici anni dalla scoperta della Lomo e la passione di un paio di studenti austriaci ha saputo tramutarsi in un azienda con più di 10 milioni di dollari di fatturato e, soprattutto, su di una comunità di utenti in continua espansione ormai prossima alle 250.000 unità. Ed è proprio questo ciò che stupisce nella rinascita della Lomo, una macchina fotografica analogica, anzi, analogicissima, capace di catturare l’attenzione di molti in un epoca in cui la vita comune appare sempre più rivoluzionata dal digitale. Perchè la lomografia rappresenta probabilmente qualcosa di più di una semplice fotografia, rappresenta piuttosto una sorta di avversione per il perseguimento della perfezione tecnica, la riscoperta di quell’inconsapevole piacere dato dal, come recita il suo slogan, “non pensare, scatta!”.

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Lunga vita al vinile


Da L'Arena di Verona

La musica oramai è divenuta il più “portatile” degli intrattenimenti (un tempo) domestici. L’avvento dei lettori mp3, probabilmente una delle più grandi rivoluzioni che la tecnologia ha saputo far scoppiare, ha reso possibile viaggiare con ore ed ore di musica contenuta nel palmo di una mano, intere discografie compresse in pochi centimetri di plastica e microchips. Una rivoluzione a tutti gli effetti che ha radicalmente modificato come, quando e dove si ascolta la propria musica preferita. Volenti o nolenti, insomma, siamo inequivocabilmente immersi nell’era della musica digitale.
Fino a non troppo tempo fa, invece, l’ascolto musicale era certamente tutto fuorché mobile. A casa, seduti di fronte all’ingombrantissimo stereo acquistato dopo mesi e mesi di sudati risparmi o magari regalato per l’altrettanto sudata promozione scolastica, ci si lasciava catturare dal suadente suono di un arcano e spesso dimenticato pezzo di plastica, anzi, di vinile. Un disco nero che festeggia proprio in questi giorni i suoi primi (e speriamo non ultimi) sessant’anni. Il 21 Giugno 1948 infatti, in una conferenza stampa che si rivelerà di valenza storica, la Columbia Records, annuncia l’ingresso sul mercato del primo LP a 33 giri.
Oggi, magari un pò malinconicamente nostalgici, non possiamo che guardare con un certo effetto a quei giorni, i giorni in cui il vinile era riuscito a rendere la musica il più metodico e passionale, rigoroso ed impulsivo, momento di svago del quotidiano. Metodico e rigoroso perchè il vinile, prima di tutto, era un rituale. Dai momenti della scelta del disco da aggiungere alla propria (ineccepibilmente e rigorosamente catalogata) collezione in cui allenatissimi polpastrelli scorrevano a velocità supersoniche lunghissime file di 33 o 45 giri, fino alla altrettanto scrupolosa conservazione del vinile, curato con le spazzole più performanti e contenuto in buste trasparenti così spesse da sembrare poterlo proteggere anche dai più catastrofici eventi.
Ma gli ascolti “vinilici” non erano solo metodo e rigore, erano anche passione, intimismo, un vero amore per la musica vista non come un semplice sottofondo ma come la più coinvolgente possibile esperienza multisensoriale. L’udito, certo, la faceva da padrone, cercando di carpire nel profondo tutte le sfumature dell’inconfondibile suono del vinile, ma anche altri sensi venivano, allo stesso tempo, straordinariamente stimolati. Come dimenticare il piacere di ammirare in ogni piccolo dettaglio le copertine “oversize” dei vecchi 33 giri, piuttosto che la quasi religiosa manualità che ci faceva appoggiare la testina del giradischi sul nostro nuovo disco.
Ed è forse proprio questo, il perfetto sposarsi di ritualità e di sentimento, che riesce a far sopravvivere il vinile nell’era del digitale. Nonostante tutto infatti, nonostante la rapida avanzata della musica in formato mp3, un non poi troppo sparuto gruppo di ascoltatori rimane fedele ai propri dischi. Spesso, quando si interrogano i cultori del vinile sul perché del loro incondizionato amore verso questo supporto, le risposte tendono a concentrarsi sugli inconfutabili vantaggi sonori degli LP. Per quanto realmente inconfutabili però, i soli vantaggi sonori forse non riescono a giustificare totalmente tale scelta. Se si sceglie di ascoltare musica su di un supporto così scomodo, oggi difficilmente reperibile e spesso propenso al logorio, non è solo perchè “si sente meglio”, forse lo si sceglie perchè il vinile permette di vivere la musica come un vero momento di assoluta e piacevole alienazione, come fosse il simbolo di un’epoca che non c’è più, un’epoca dove bastava poco per riuscire ad isolarsi dal caotico stress della quotidianità.
Solo uno stereo, dei dischi ed un orecchio attento, magari sperando che nel nostro lettore mp3 e, perchè no, anche nel nostro cellulare lampeggi compulsivamente la scritta “battery low”.

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Tanti auguri ai soliti ignoti


Da L'Arena di Verona

“Col sistema del buco rubano pasta e ceci.” E’ questo il titolo di un articolo che rappresenta l’ultimo fotogramma di uno dei film più importanti della storia del cinema italiano: “I soliti ignoti”. Diretto a Mario Monicelli, il capolavoro della commedia all’italiana festeggia in questi giorni il suo cinquantesimo anniversario dall’uscita nelle sale.
Il titolo del fittizio articolo che chiude il film rimane piuttosto esplicativo; “I soliti ignoti” è la storia di un fallimento, la storia di un gruppo di poveri disperati che, nella cornice di una Roma ancora impegnata nella fase di ricostruzione post-bellica, decide di organizzare una rapina al Monte dei pegni. Una banda destinata al fallimento cinematografico ma, certamente, una banda composta da alcuni dei migliori attori del cinema italiano. Vittorio Gassman, fino ad allora conosciuto principalmente per i suoi ruoli drammatici, rivela al grande pubblico il suo incommensurabile talento comico interpretando il suonato pugile balbuziente Beppe detto “Er Pantera”. Al suo fianco altri grandi nomi quali Marcello Mastroianni (il fotografo Tiberio), Tiberio Murgia (Ferribotte il siciliano) ed una giovanissima Claudia Cardinale al suo esordio cinematografico. A completare un cast già di per sé di assoluto livello il principe De Curtis, in arte Totò, nelle vesti di Dante Cruciani, guru dello scasso di casseforti e prezioso, o presunto tale, consulente per la banda degli inesperti rapinatori.
“I Soliti Ignoti” ha, secondo molti, il grandissimo merito di aver rivoluzionato o forse addirittura creato un genere cinematografico, quello, già citato, della commedia all’italiana. Storicamente infatti la commedia nostrana si caratterizzava per un costante ricorso alla gag, alla risata fine a se stessa, affondando saldamente le proprie radici nella tradizione dell’avanspettacolo e del varietà. Con il capolavoro di Monicelli la comicità cerca di interfacciarsi direttamente con il reale, con il vissuto, con la drammaticità della quotidianità, come a voler tramutare in comico il neo-realismo del secondo dopo guerra.
Una comicità che vive dunque sospesa in una situazione di precario equilibrio tra due entità, tra la risata e la lacrima, tra il sorriso e la disperazione. Non esiste consolazione per i soliti ignoti, l’unica possibilità è quella di rimanere invischiati nel loro ruolo di tragico anonimato. Anche la rapina, l’ipotetica svolta che si pensava destinata a cambiare la loro vita, finisce in un piatto di pasta e ceci, forse perché, come recita in una delle battute finali del film un rassegnato Marcello Matroianni: “Rubare è roba per gente seria, mica per gente come voi! Voi, al massimo... potete andare a lavorare!”
Personaggi dunque tragicamente reali, portati sullo schermo con tutti i loro umani ma insormontabili difetti, con la loro tragica ed irreversibile empatia per il fallimento. Nel cercare di rendere efficace questo tipo di interpretazione, nuovamente rivoluzionario è da considerarsi il lavoro degli attori e dei doppiatori del film (tra cui si annovera anche la voce di una giovane Monica Vitti), in grado di rappresentare con assoluta cura e fondatezza un amplio spettro di diverse forme dialettali; dal romanesco, comunque uno dei principali protagonisti del film, al bolognese dell’indimenticabile Capannelle, dal siciliano di Ferribotte, all’improvvisato “nordico” di “Er pantera” Gassman. Tema caro a Monicelli quello dello studio della lingua italiana, sviluppato magistralmente con un altro caposaldo della cinematografia del regista: “La grande Guerra”.
Nell’era dei cine-panettoni e, come non fosse già abbastanza, dei cine-cocomeri, “I Soliti Ignoti” rimane, a cinquant’anni di distanza, il vero manifesto dell’enorme potenziale della comicità, quello, secondo Monicelli stesso: “di rispecchiare e di raccontare, non quello di fare prediche, passando dall’amore alla morte, generando un disperare che riesce, tuttavia, a far sperare: attraverso la risata.”

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In acque profonde con David Lynch


Da L'Arena di Verona

“Le idee sono simili a pesci. Se vuoi prendere un pesce piccolo puoi restare nell’acqua bassa. Se vuoi prendere il pesce grosso devi scendere in acque profonde.” 
Le parole sono di David Lynch, regista, sceneggiatore, pittore, musicista, compositore e, soprattutto, artista che per tutta la propria carriera ha certamente saputo immergersi in acque profonde alla ricerca dei pesci grossi.
 E’ di recente uscita un nuovo libro del regista statunitense intitolato: “In acque profonde. Meditazione e creatività” (Mondadori, 2008). Un’autobiografia, un testo di storia del cinema, una guida alla meditazione, un’opera con la quale Lynch racconta e si racconta con estrema sincerità. Il testo si organizza in mini paragrafi all’interno dei quali il regista passa in rassegna una moltitudine di temi diversi con quell’inconfondibile accurato disordine che ne ha da sempre caratterizzato indelebilmente la filmografia. 
 Una filmografia spesso criptica ed ermetica che questo testo aiuta solo in parte a decifrare. Perchè David Lynch, nei suoi film, ha continuativamente perseguito il raggiungimento di un linguaggio che riesca ad essere, nel contempo, enigmatico ed interpretativo. 
Enigmatico per l’assenza di linearità e di apparente logica, interpretativo perchè, come afferma lo stesso regista, un film dovrebbe, prima di tutto, stimolare un processo di interpretazione personale: “Un film dovrebbe camminare con le proprie gambe. E’ assurdo che un regista debba spiegarne il significato a parole. L’opera d’arte deve bastare a se stessa”. “In acque profonde” rappresenta dunque un testo che non può e non vuole offrire una soluzione agli innumerevoli misteri proposti da Lynch nei propri film ma, piuttosto, cerca di porre l’accento sull’importanza dell’interpretazione personale, sulla capacità di saper attribuire un significato ad un messaggio. Come quando, riferendosi a quella scatola e a quella chiave che, presenti nel film “Mullholland Drive”, hanno stimolato le più disparate teorie relative al contenuto della prima, Lynch si esprime così: “Non ho la più pallida idea di cosa siano”.

Un tema accomuna molti dei diversi argomenti che Lynch riesce a trattare in questo testo ed esso corrisponde al rapporto del regista con la meditazione trascendentale. L’autore de “I misteri di Twin Peaks” racconta quindi come le sedute di meditazione in cui da più di trent’anni si immerge quotidianamente abbiano saputo diventare un incredibile propulsore per la sua già di per sè sconfinata geniale artisticità. 
 “In acque profonde” rappresenta un must have per qualsiasi appassionato di cinema ed in particolare per i numerosi cultori di David Lynch ma, allo stesso tempo, diviene un’interessante lettura per chi, dal più fedele cultore dello yoga al più diffidente degli scettici, desidera approfondire il tema della meditazione e del suo rapporto con la creatività. “Il programma di meditazione trascendentale che pratico è stato il modo per immergermi in acque profonde, a caccia del pesce grosso”.

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STILT E' IN COSTRUZIONE

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Lost - Documentario

Questo video nasce come supporto audiovisivo alla mia tesi di laurea intitolata "Lost. Analisi di una versione audiovisiva del romanzo d'appendice."
Contiene interviste a:

Jack Bender - Regista ed exec producer di Lost
Carlo Dellonte e Giorgio Glaviano - Autori di Lost e i suoi segreti
Paola Acquaviva - Programming manager di Fox Channels Italy
Giusto Toni - Direttore di Jimmy
Bruno Voglino - Autore TV

Il documentario è stato concepito per la mia discussione di laurea quindi quella che potete vedere è una versione temporalmente contenuta
ed il più compressa possibile a livello di contenuti ma conto con un pò più di tempo, e passata l'euforia da post dottore :), di lavorare ad una
versione più completa che possa integrare tutto il materiale che ho raccolto nell'ultimo anno.



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