Man On Wire

Da L'Arena di Verona.

New York, 7 agosto, 1974. Sono da poco passate le sette del mattino e mentre la Grande Mela si sta svegliando, un folto numero di persone è accalcato ai piedi del World Trade Center. Tutti stanno guardando verso l’alto, scrutando con attenzione qualcosa lontano più di quattrocento metri dal loro naso. Si scorge un cavo, una fune che collega i tetti delle due torri gemelle e sopra di esso, sospeso nel vuoto, qualcosa sembra muoversi. Qualcosa, di certo non qualcuno, è questo il primo pensiero dei presenti. Chi mai sarebbe così pazzo da percorrere, sospeso nel vuoto e camminando su di una fune larga pochi centimetri, i quarantatré metri che separano le due torri? Nessuno! E’ Impossibile.


Walt Disney sosteneva spesso che “C’è qualcosa di divertente nel realizzare l’impossibile”. Philippe Petit ha fatto del realizzare l’impossibile la sua vita. Divertendosi. Era lui quel qualcuno che passeggiava sorridente da una torre all’altra quel 7 agosto 1974. “Man on wire”, acclamato documentario, vincitore di un premio Oscar e recentemente pubblicato in DVD da Feltrinelli, racconta questa impresa ed il suo principale protagonista: Philippe Petit.
Philippe Petit, nasce nel 1949 a Nemours, piccolo comune francese distante solo pochi chilometri da Parigi. Figlio di un ex pilota militare, Philippe non è uno studente modello, sono molti i suoi interessi ma tra questi non va di certo annoverato lo studio e così, dopo essere stato cacciato da cinque istituti scolastici diversi, decide di scappare di casa all’età di quindici anni. Fuggito a Parigi il giovane Philippe si avvicina al funambolismo e, da autodidatta, impara l’arte della camminata sulla corda. Tutto sembra venirgli molto facile tant’è che, dopo un solo anno di apprendimento, stanco delle tecniche fino ad allora comuni, decide di inventare nuovi passaggi e nuovi modi di affrontare la fune.
Non è ancora abbastanza. Perfezionista di carattere spesso maniacale, Petit, sebbene già tra i migliori interpreti dell’arte funambolica, vuole fare di più, vuole avvicinarsi ai limiti più estremi della disciplina ed abbatterli, riscriverli e poi, non contento, abbatterli nuovamente. Una sorta di eterna battaglia contro se stesso, contro la propria arte, e, soprattutto, contro l’impossibile.
Sono proprio l’impossibile, l’irrealizzabile ed il non concepibile ad affascinare Petit e così, in poco tempo, stupisce il mondo intero camminando prima su di una fune tesa tra le due torri di Notre Dame de Paris e poi su di un’altra posizionata tra i due piloni portanti del Ponte di Sidney in Australia.
Due imprese difficilmente eguagliabili, ma l’abbiamo già detto, i limiti esistono per essere abbattuti. E’ il 1968 ed il funambolo francese, afflitto da un forte di mal di denti, sta sfogliando una rivista nella sala d’attesa di uno studio dentistico. Nella rivista si parla della costruzione di due torri, le più alte del mondo, che sarebbero state edificate a New York da lì a a 5 anni e si sarebbero chiamate World Trade Center. Come la più classica delle ispirazioni pronta a colpire improvvisamente il più geniale degli artisti, Petit sente che quel luogo che ancora non esiste gli appartiene. Stacca la pagina dal giornale, scappa dallo studio dentistico ed inizia a pianificare il suo magnus opus, il suo capolavoro: camminare su di una fune tesa tra le due future torri gemelle.
Ci riesce quel già citato 7 agosto 1974, percorrendo otto volte il cavo che unisce le due torri, camminandoci per quarantacinque minuti, sedendovisi per salutare il proprio pubblico ed il gabbiano che gli svolazzava attorno. Il tutto, come testimonia una delle immagini più affascinanti e suggestive del documentario, senza abbandonare quel sincero sorriso che l’ha accompagnato per tutta l’impresa.
Il documentario, diretto da James Marsh, in un affascinante alternarsi di immagini d’archivio, interviste e spezzoni di fiction, ripercorre su di un doppio arco narrativo la camminata di Petit e la lunga e travagliata fase di preparazione. Da un punto di vista cinematografico, ciò che colpisce nel lavoro di Marsh, è la straordinaria opera di caratterizzazione che il regista è riuscito a mettere in atto. Allontanandosi dal carattere troppo spesso asettico che caratterizza molti prodotti documentaristi, il regista regala personalità al proprio lavoro attribuendogli atmosfere tipiche degli heist-movies americani.
Per questo, ma anche e soprattutto per l’unicità e la straordinarietà dell’evento narrato, può capitare di sentirsi coinvolti dal racconto in un’esperienza che non si discosta di molto dalla visione di veri film di fiction. Una storia così incredibile da non poter sembrare reale. Ma il contatto con la realtà, durante la visione di “Man on Wire”, arriva spesso quando meno ce lo si aspetta. Avviene come se, sospesi assieme a Petit a 400 metri d’altezza, ci si ricordasse di guardare verso il basso. Proprio in quel momento, nel tentativo di recuperare il respiro appena smarrito, ci si accorge che quello a cui si sta assistendo è il racconto di una storia vera, anzi, verissima, quella di un uomo e del suo travolgente desidero di realizzare l’impossibile. b.


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